Deve scattare “quella molla”, che ti fa dire: merito di essere amata. Nessuno ha il diritto di maltrattarmi, di farmi del male. Sembra quasi banale. Invece no. Per molte donne, troppe, l’amor proprio è uno sconosciuto e la violenza è una sorella, cattiva. Finché, ecco, non scatta quella molla, che fa dire: “Bo(h). Non si deve sempre morire per essere ascoltate”. Questo è il titolo del libro di Bo Guerreschi, pubblicato nel 2005 con Armando Editore. È una delle premiate nella quinta edizione del Premio Eudonna – Movimento federativo per l’Europa. Ogni anno, viene attribuito alle donne della società civile che sono state protagoniste di storie di eroismo, sacrificio, privazione, violenza subita. Ecco, Bo (questo è il suo nome oggi, un diminutivo che non sminuisce) ha vissuto tutto questo. Spesso, infatti, eroismo e vittimismo si intrecciano in modo misterioso. Spesso le donne sono vittime eroiche, dall’essere vittime diventano eroine.
La Sala Europa della Rappresentanza Italiana della Commissione Europea, a Roma, mercoledi 13 gennaio, era stracolma. Il servizio di sicurezza alla porta ha impedito l’ingresso ai ritardatari. Già. Perché in tempi così difficili, di esagerato protagonismo di figure meschine del pubblico quotidiano, c’è voglia di conoscere storie vere, storie d’amore, storie di donne “donne”, capaci di cambiare e promuovere l’umanità. “C’è bisogno di testimonianza, di condivisione di esperienze”, dice a In Terris la presidente di Eudonna, Giovanna Sorbelli. “E c’è bisogno di progettualità, di sviluppare il positivo dal tragico. L’eroismo è questa capacità di reagire positivamente al dolore, alle tragedie della vita, per realizzare qualcosa di buono e di bello insieme agli altri, per gli altri”. Un capacità, questa, un coraggio che caratterizza l’eroismo al femminile.
Ad un certo punto, ecco, tra le coraggiose del quotidiano, troppo spesso al buio dell’anonimato, è stata chiamata lei, ad essere premiata, Bo. Il suo nome di nascita non può usarlo. Il marito le ha rubato l’identità, insieme all’anima. Ha venduto i suoi dati ad una organizzazione internazionale. Soltanto l’anno scorso, ben 1500 persone hanno subito un furto d’identità, in Italia. Sono i numeri forniti dalla Banca d’Italia. Perlopiù professionisti, cittadini di ceto medio-alto. I ladri informatici sono agguerriti ed efficienti. Bo ha cambiato nome. Ha scelto quello con cui è sempre stata chiamata da piccola. E ha conservato il cognome, il nome della famiglia. Non è la sola violenza che ha subito dal marito. L’anima, però, non si può uccidere e torna sempre “a casa”. Così, la sua esperienza di soprusi è diventata una storia di servizio sociale. Ha creato un’associazione, “Bon’t worry” (www.bontworry.org), che offre aiuto, rifugio e assistenza psicologica, medica, legale, alle donne maltrattate, picchiate, violentate, abusate in vario modo. In poco più di un anno, ha già aperto varie sedi: a Roma, Milano, Firenze, Bologna, Napoli. Presto anche all’estero, a Londra e negli Stati Uniti, a Okala, in Florida.
“Don’t worry” significa “non aver paura”. La paura è il nemico più grande delle donne che subiscono violenza. “Non ti lascia mai, anche a distanza di anni”, dice Bo. “A lungo ho camminato un passo indietro a mia figlia, quando uscivo, per timore che il pericolo arrivasse all’improvviso, sbattendomi in faccia. Ancora oggi non sono tranquilla se esco da sola”. Paura di cosa, di chi? Ce lo racconta, in un fiume di parole che temono anch’esse di stare sole e si abbracciano strette, senza lasciare spazio. Si è sposata all’età di 24 anni con un dentista milanese, nel 1989. Presto, dopo quattro anni, sono cominciate le violenze psicologiche e morali, economiche: la prendeva in giro, la umiliava, la insultava. Eppure, Bo era brillante, una donna in carriera. Laureata in Alta Finanza, studiava anche giurisprudenza e frequentava uno studio di avvocati. O forse, proprio per questo, per gelosia, per invidia, per competizione, il marito aggrediva la sua autostima.
“Mi trattava come una mentecatta, anche se in casa ero io che risolvevo tutti i problemi”, commenta. Non solo. La tradiva – con donne e con uomini, scoprirà in seguito –, la calunniava. Perché? “È la domanda che mi sono fatta per anni in modo ossessivo e che molti mi fanno, delle forze dell’ordine, della gente comune. Non c’è un perché. Non si conosce il perché. Si possono fare ipotesi. Per gelosia, per invidia, per frustrazione, o soltanto per cattiveria”, risponde. E aggiunge: “Se reagivo, diventava ancora più violento”. Pensava di meritare quegli insulti, quelle cattiverie, perciò continuava a subirle. Come tante altre donne. Finché non ha capito che nessuno merita la violenza, la cattiveria, e non ha resistito più.
Nel ’97, Bo ha una lesione cerebrale. Per troppo stress, scrivono i medici nella cartella clinica che lei chiederà soltanto dieci anni dopo. Nel ’99, il marito porta in casa un uomo come ospite fisso, l’anno dopo la caccia insieme alla figlia, dopo averle venduto i dati personali. E cominciano le violenze fisiche, le percosse, anche attraverso terzi. La butta giù dalle scale, si trova due bellimbusti che l’aspettano sotto casa e la picchiano, rompendole quattro denti. In circa 15 anni, ha sporto 335 denunce, l’ultima, a luglio 2014, di circa 30 pagine e oltre 300 documenti allegati. Eppure, nessun giudice finora l’ha ascoltata e in Procura non si trovano i suoi esposti.
La sua salvezza è stato il libro-autobiografico che ha scritto nel 2005 e l’avvocato Livia D’Amico, piccola di statura ma fortissima in diritto e determinazione. Il 5 gennaio 2015 nasce la sua associazione, “Bon’t worry”, prima come no-Profit, poi come Onlus. “Se non aiuto io le donne vittime di abusi e soprusi, chi può farlo?, mi sono detta”, spiega Bo. L’associazione ha premiato la Polizia di Stato e i Carabinieri, il prossimo 7 aprile sarà il turno della Guardia di finanza.
Le forze dell’ordine sono gli angeli del bene, in aiuto delle donne sottoposte a soprusi. Il problema, però, sono le procedure. “Il Codice Rocco era più efficiente per assicurare la giustizia, soprattutto preventiva. Oggi, con il Codice Pisapia, occorre l’autorizzazione del magistrato per intervenire, e spesso arriva tardi o non arriva affatto”, afferma Bo. Il suo giudizio sulla legge sul “femminicidio” o sullo stalking è negativo. Uno schiaffo a chi se ne sia fatto un vanto. “Non servivano nuove leggi, andavano benissimo quelle vecchie, sulla persecuzione, la violenza privata, l’omicidio, di uomini e donne. Sono le nuove procedure che non funzionano”.
L’amore non lascia lividi. Molte donne lo comprendono tardi, alcune in età avanzata, “quando non ce la fanno più”, come ha detto la sociologa Francesca De Masi a In Terris. Secondo i dati Istat, una donna su tre, in Italia, subisce violenza. Le situazioni più a rischio, dice Bo, sono quelle in cui si vivono difficoltà economiche o differenze culturali e di status sociale. “La crisi economica ha portato ad un aumento delle violenze domestiche”. Molte donne hanno paura di essere emarginate, se denunciano, non soltanto delle botte. “Nei ceti più alti, si trovano le maggiori resistenze, per timore di perdere la propria condizione privilegiata e per non rovinare l’immagine pubblica”. Andarsene, denunciare, non significa scappare, ma è coraggio di vivere, di rinascere.